Illustrazione di Gianluigi Marabotti |
La salsa di soia o shoyu è un ingrediente tipico della gastronomia asiatica, ottenuto dalla fermentazione della soia e del grano.
Nasce in Cina, ma si diffonde in tutto l’oriente, con consistenza e gusto differenti in base al luogo di produzione. Il tamari, ad esempio, è un tipo di shoyu usato in Giappone che ha la caratteristica di essere privo di glutine e quindi adatto ai celiaci (è consigliabile comunque leggere molto bene le etichette dei prodotti diffusi in Europa in quanto spesso utilizzano in modo improprio il termine tamari e possono contenere ingredienti diversi da quelli tradizionali).
La salsa di soia, quella vera, è tutta naturale. Gli ingredienti sono solo cinque: fagioli di soia, grano, lievito (come fermento viene utilizzato un fungo filamentoso detto Aspergillus oryzae o koji ), sale marino e acqua. La soia, dopo essere stata risciacquata e messa in ammollo, viene cotta in acqua bollente per 4 ore, mentre i chicchi di grano vengono tostati e frantumati in un mulino in modo da aumentare la superficie a disposizione del lievito. Quando la soia è raffreddata alla temperatura di 33°C si unisce al grano e al lievito; le proporzioni di questi tre ingredienti sono cruciali ma sono tenute segrete dalle diverse aziende produttrici. Il tutto viene lasciato in incubazione per circa due giorni all’interno di contenitori di legno, facendo attenzione che la temperatura non aumenti troppo. È noto da secoli che il fattore temperatura è fondamentale per garantire la buona riuscita della fermentazione, ma è grazie alla moderna tecnologia che se ne è scoperta la ragione: mantenere una temperatura al di sotto dei 40°C garantisce la massima produzione di idrolasi extracellulari da parte del fungo. Una indicazione che il procedimento è andato a buon fine si ha quando la superficie della miscela è ricoperta da un sottile strato di muffa bianca senza segni di contaminazioni da altre specie del genere Aspergillus (queste si presenterebbero di colore scuro, verde o nero).
Al termine della fermentazione si aggiunge una salamoia (costituita da sale e acqua) e quindi il tutto è lasciato fermentare all’interno di vecchie botti di legno per 6 – 12 mesi, a seconda dell’intensità del sapore che si vuole ottenere. La miscela così ottenuta, detta miromi, deve essere rimescolata spesso, soprattutto all’inizio, per fare in modo che il lievito resti attivo. L’impasto risultante, dall’aspetto poco gradevole, viene filtrato e il liquido così ottenuto è sottoposto a pastorizzazione. La parte solida rimasta viene in genere utilizzata come mangime per animali.
Il gusto tipico di questa salsa è noto con il termine umami ed è determinato da una serie di composti tra cui l’acido glutammico e l’acido aspartico derivanti dall’idrolisi enzimatica delle proteine della soia e dal glutine del frumento.
Purtroppo oggi in Europa non è infrequente trovare prodotti a basso costo preparati a partire non da soia intera, come vuole la tradizione, ma da proteine idrolizzate con l’aggiunta di caramello per mimare il colore originale.
La salsa di soia è un ottimo insaporitore, da usare comunque con moderazione in quanto molto salata; va aggiunta a fine cottura per preservarne le proprietà e poi deve essere conservata in frigorifero.
Composizione per 100 g di parte edibile:
- Acqua 71,1 g
- Proteine 5,2 g
- Lipidi 0,1 g
- Glucidi disponibili 7,7 g
- Fibra alimentare 0,8 g
- Sodio 5175 mg
- Potassio 180 mg
- Fosforo 110 mg
- Niacina 3,4 mg
- Energia 53 Kcal
(Articolo scritto per la Scuola di Ancel)
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